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dissabte, 28 de maig del 2016

L’Italia brucia in Libia tra le operazioni di Infowar

01.05.

Gaetano Mauro Potenza

È di pochi giorni fa la notizia diffusa dalla stampa e da alcuni media nazionali di una protesta anti-italiana tenutasi in piazza el-Kish a Bengasi. La fonte, un’analista dell’International Crisis Group, ha riportato la foto di una bandiera tricolore data alle fiamme tra il giubilo generale dei presenti. Immagini già tristemente viste in Afghanistan e Iraq con la bandiera statunitense: questa volta, ad ardere tra le fiamme, potrebbe essere qualcosa di più di un semplice drappo.
I partecipanti alla protesta sono presumibilmente sostenitori del generale Khalifa Haftar, figura chiave dell’attuale movimento antagonista al governo Serraj promosso e sostenuto dalle Nazioni Unite. Il motivo di tale astio sarebbe da imputare a un’intervista rilasciata dal ministro Pinotti, nella quale si sosteneva che l’esercito libico e le rispettive milizie non fossero all’altezza di combattere contro lo Stato Islamico. La protesta, evidentemente faziosa, è stata ampiamente cavalcata dai media e dai social network, con la conseguenza che nel giro di poche ore sono iniziate a circolare foto e video dalla forte connotazione anti-italiana.
Effettuando una rapida analisi sembra che l’hashtag #brucialabandieraitaliana, sia in arabo classico sia in dialetto libico, sia quasi inesistente e che la protesta divampata in poche ore e diventata di fatto virale, si sia concentrata in una sola parte della Libia.
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حرق علم إيطاليا ورفض الشعب لتدخلها في الشؤون الداخلية لليبيا في معظم المدن الليبية .

Possibile? In un contesto come quello dell’infowar, sì.
Nel complesso scenario libico si stanno muovendo interessi internazionali, soprattutto europei, che probabilmente delineeranno la politica degli anni a venire: non è un caso dunque che la guerra sia prima di tutto condotta con nuovi metodi, primo tra tutti la saturazione dei media e dei social network con informazioni distorte volte a condizionare l’opinione pubblica.
La propaganda in Medio Oriente prende i contorni di una forma di condizionamento diretto alla popolazione che nel prossimo futuro potrà essere oggetto di una missione militare: in questo contesto gli americani hanno già dato prova di grande maestria, in occasione dell’apertura della missione in Afghanistan.
Gli scenari globalizzati hanno dimostrato, infatti, come il problema principale del nuovo millennio sia la globalizzazione delle comunicazioni. L’informazione si è trasformata in un potere capace di conseguire obiettivi politici, strategici, economici e militari. L’infowar si svolge oggi a livello soft delle percezioni cognitive coinvolgendo ogni strato del Sistema Paese, dal semplice cittadino fino alla multinazionale o alle istituzioni. La strategia alla base dell’Information Warfare, nella sua connotazione offensiva, è stata sviluppata nel corso degli anni soprattutto dall’intelligence anglosassone che grazie alla ricerca di know-how dal mondo privato ha sviluppato una capacità offensiva delle informazioni che perseguono obiettivi sempre più ampi e strategici.
In uno scenario asimmetrico, la quinta dimensione, quella “virtuale”, assume un’importanza primaria poiché può condizionare non solo le scelte politiche ma anche la conduzione di operazioni militari di ampio respiro.
In Libia, infatti, la comunità internazionale è ancora profondamente interessata ad aprire un’operazione militare, ma non sembra avere altrettanto interesse nel concedere all’Italia la guida della missione per la risoluzione della crisi.
Lo studio della quinta dimensione applicata al fronte libico può spiegare le ragioni dell’attuale situazione nel Paese.
Possiamo, per semplificare, racchiudere le operazioni di infowarfare a cui è sottoposto lo scenario libico su due direttrici:
  • Operazioni sul fronte internazionale, che si svolgono nei territori dei principali attori che stanno conducendo il gioco libico, per condizionare le decisioni strategiche;
  • Operazioni sul fronte interno al Paese, ossia psychological operations per influenzare il popolo libico;
Per quanto concerne la prima direttrice, quella sul fronte internazionale, l’Italia è il Paese che sta subendo il maggior numero di operazioni. Gli attori internazionali cercano di orientare le scelte che Roma dovrà affrontare in merito al dossier Libia sfruttando i mezzi di informazione e i social network.
Sono continue, soprattutto negli ultimi sei mesi, le smentite ufficiali a cui il ministro Pinotti si è dovuta sottoporre per insinuazioni circa l’imminente intervento militare italiano in Libia.
Non solo, nel mese di febbraio lo stesso Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il gen. Claudio Graziano, ha aspramente criticato i media nazionali di ricostruzioni faziose, accusandoli di fomentare un clima di caos informativo che destabilizza il buon esito delle operazioni diplomatiche in corso.
L’opposizione alla presa di posizione italiana nei confronti della Libia non arriva solo dai giornali ma si è insinuata prepotentemente anche nella dialettica dei centri studi e circoli intellettuali, fatto assai grave giacché sono proprio questi che, vista l’esperienza e la professionalità, dovrebbero orientare il pensiero nazionale.
Le possibili soluzioni proposte da questi ultimi non tengono mai conto degli interessi nazionali del nostro Paese, un fatto che appare assurdo visto e considerato che gli interessi italiani in Libia sono chiari anche ai non addetti ai lavori. Si veda, per esempio, la teoria sulla tripartizione libica (Fezzan, Cirenaica e Tripolitania) o la nascita di un “Kurdistan” libico nella regione più contesa: la Cirenaica. Soluzione, quest’ultima, che porterebbe all’isolamento della regione, obiettivo voluto ed auspicato da diverse potenze con interessi speculari a quelli italiani, ostacolando la creazione di uno Stato libico unito.
Proprio nell’ultima settimana pare che gli inglesi si siano finalmente rivelati e abbiano fatto richiesta per avere il comando della missione militare in Libia, attualmente saldamente ancorata nelle mani di Roma. Quelle bandiere bruciate a Bengasi potrebbero celare un’abile lavoro di manipolazione informativa contro l’Italia che porterebbe quest’ultima a rinunciare, volontariamente o meno, alla guida politica e militare in Libia. Visti i grandi assembramenti di persone che si sono riuniti intorno alla bandiera bruciata, sembra che questa operazione di infowarfare stia egregiamente funzionando a discapito dei nostri interessi.
Sul fronte interno alla Libia la nazione non è nuova ad operazioni c.d. “of intoxication” che mirano ad influenzare la popolazione verso uno scopo ben preciso. La capacità d’influenza raddoppiata dai canali di comunicazione informale quali social media e blog, ha pesantemente influito sulla riuscita della primavera araba del 2011.
In quell’occasione Facebook e Twitter hanno avuto lo stesso peso che una volta avevano radio e televisioni con il vantaggio di essere difficilmente oscurabili dai vari regimi.
Le false notizie, le foto modificate e gli slogan propagandistici vennero studiati nel dettaglio per orientare la popolazione verso la rivolta, operazione di cui oggi si conoscono i retroscena ma che all’epoca permise la caduta di un regime decennale.
L’Italia, dunque, essendo uno dei principali attori internazionali coinvolti nella crisi libica, come dovrebbe tutelarsi da queste operazioni così complesse volte a screditare il suo operato e come dovrebbe orientare l’informazione per una risoluzione ottimale della crisi?
Va subito sottolineato che le capacità di infowar a livello di intelligence in Italia sono limitate all’aspetto difensivo; tali capacità risultano inoltre molto ridotte per il poco budget speso dalla difesa in tale ambito e per la mancanza di una partnership con il mondo privato delle intelligence delle grandi multinazionali. Queste, che possiedono il know-how necessario per una capacità offensiva delle informazioni, riescono nel loro intento di perseguire obiettivi sempre più strategici.
Come abbiamo più volte sottolineato, prima di parlare di intervento militare in Libia, l’operazione base è sicuramente un’eccellente lavoro di intelligence che pone le sue fondamenta sull’infowar.
Inizialmente è necessario esaltare i possibili benefici che Roma potrebbe portare in Libia e ricordare la presenza di molte aziende private in loco che portano benessere e lavoro. Fondamentale è la mediazione italiana, che non intende piegarsi a ragionamenti facili e storicamente discutibili sulla risoluzione della crisi. Il Ministro Gentiloni, nella sua recente visita a Tripoli per garantire il supporto al Governo Serraj, ha portato beni di prima necessità e medicine, una notizia che se sfruttata debitamente avrebbe potuto avvantaggiare il lavoro italiano nella regione. Quello che manca veramente è una costruzione mediatica a livello nazionale ed internazionale che dipinga questo intervento come qualcosa di risolutivo per la crisi libica. Tuttavia è difficile rappresentare l’Italia per quello che attualmente non può rappresentare, un Paese forte con una politica estera chiara e lungimirante.
Al di là della collaborazione più ferrea tra infowarfare e mondo dell’informazione, una strategia vincente la si potrebbe avere in partnership con il mondo privato italiano già presente in loco. Questo garantirebbe la presenza sul terreno di hub informativi e connessioni con la popolazione fondamentali all’apertura di una missione militare. È questo l’aspetto che il Gen. Petraeus aveva appreso dal teatro iracheno facendo leva sul concetto di Cultural Intelligence sviluppato dall’antropologa Montgomery McFate.
Un’operazione di infowarfare atta a stimolare il dialogo tra le parti e l’apertura di canali di diplomazia sotterranea tipici dell’intelligence per iniziare a far dialogare le parte in gioco, arrivando infine ad accordi informali successivamente stipulabili a livello livello di governance unitaria che a livello internazionale.
Proprio dal teatro iracheno ed afghano avremmo dovuto imparare che la base del consenso nasce dalla popolazione: solo se questa si sente messa nelle condizioni di scegliere autonomamente il suo futuro si potrà avviare un iter ed una sinergia per una eventuale operazione di mantenimento della pace. In questo caso la psicologia delle masse applicata ad un concetto di guerra informativa può dare all’Italia la svolta che cercava in Libia rendendosi protagonista di un grande successo militare e diplomatico.
Tutto questo però costa lavoro d’intelligence e una relazione strettissima tra mondo privato ed interesse pubblico che in Italia ancora manca.
La lettura della realtà che ci circonda diventa sempre più complessa ed articolata: quello che l’Italia dovrebbe fare in questo momento è sicuramente giocare d’anticipo ostacolando i piani internazionali che la vedrebbero protagonista nella risoluzione della crisi libica.

Quelle che bruciano a Bengasi non sono solo bandiere italiane ma anche la credibilità e gli interessi di un’intera Nazione.

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